giovedì 16 dicembre 2010

The Deadly Blast



Capitolo secondo


Mancavano esattamente ventisette minuti alla fine del turno, quando il mio cerca persone prese a vibrare attaccato alla mia cintura. Lo presi tra le mani e controllai il numero sul display: era il direttore della struttura.
«Che succede?», mi domandò Lucien notando la mia espressione confusa.
«Il Signor Swan.»
«Di cosa si tratta?»
«E secondo te come faccio a saperlo?»
Trattenne a stento una risata, come gli capitava ogni volta che le mie risposte erano acide. Cioè… praticamente sempre.
Uscii dalla sala relax dove tutti gli ospiti sonnecchiavano beatamente, comodi nei divani di velluto rosso. Era la quiete prima della tempesta. Di lì a poco tutti si sarebbero svegliati e avremmo cominciato li inseguimenti dei
più ribelli. L’Halzaimer è davvero una brutta malattia.
A ogni modo, percorsi le quattro rampe di scale con calma, convinta che non potesse trattarsi di niente di troppo urgente.
Giunta di fronte all’ufficio del capo, che si trovava al piano terra, bussai leggermente per annunciare il mio arrivo. Attesi il via libera. «Avanti», disse la voce del Signor Swan dall’altra parte della porta di legno scuro. Così, la aprii e la attraversai.
«Salve Knight.»
Il capo aveva l’insopportabile abitudine di chiamarci tutti per cognome. Non Nina, non signorina Knight. Semplicemente Knight. Mi urtava.
«Salve», lo salutai cortesemente.
Il Signor Swan era un uomo alto circa un metro e settantacinque, sei centimetri più di me. Occhi e capelli castani, lisci e folti. Li portava lunghi fino alle spalle ma, almeno in ufficio, li teneva raccolti in una coda di cavallo molto stretta. Avevano ‘aspetto di una mousse al cioccolato, e diverse volte immaginai come sarebbe stato infilare le dita in quella nuvola castana. Sì, Michael Swan era un uomo davvero attraente, ma il suo fascino appariva in quantità identica alla sua stronzaggine. Esiste la parola stronzaggine? Non lo so, comunque…
Mi fissò con i suoi occhi di nocciola, corrucciando la fronte al punto che sembrò trasformarsi in uno di quei cani la cui pelle è tutta pieghe e onde.
«Va tutto bene, signor Swan?», gli domandai quando il silenzio divenne pesante.
Mi guardò ancora per un attimo prima di parlare. «Ha qualche impegno stanotte, Nina?»
Il suo tono di voce mi fece rabbrividire. Nina? Mi aveva davvero chiamato Nina? Incredibile. E inquietante.
«Nessun impegno», risposi. Ma subito mi affrettai ad aggiungere: «Perché me lo chiede?»
La sua espressione passò dal corrucciato, al confuso al… divertito?
Esplose in una risata che fece quasi vibrare i vetri.
«No! No Nina! Non mi fraintenda!» disse con le lacrime agli occhi. «Voglio dire, lei è una ragazza attraente, ma la mia domanda non era una proposta»
Mi sentii a disagio. Era così evidente ciò che mi passava per la testa? Arrossii violentemente.
«Volevo chiederle se è disposta a coprire il turno di notte. Greene è a letto con l’influenza e lei è l’unica a cui posso rivolgermi.»
Merda! Io odiavo il turno di notte. Odiavo la notte di per sé.
Le ombre mi terrorizzavano. Mi sembrava sempre di sentire dei rumori inesistenti, di vedere sagome irreali. Mi sentivo sempre spiata, di notte, e avevo paura.
Ma nonostante il mio terrore non potevo rifiutare, perché il Signor Swan mi aveva già dato la grazia di non avere mai notti in calendario. Mi ero offerta di fare i doppi turni di giorno, ma avevo pressoché implorato di non essere assegnata al turno di notte. E il Signor Swan mi aveva accontentata senza battere ciglio, chiedendo la mia reperibilità soltanto in caso… Bé, soltanto in casi come quello.
Così accettai.
«Prima che torni al suo lavoro» Mi fermai con la mano sulla maniglia della porta. «Volevo informarla che il cancello sul retro non può essere chiuso. Il tecnico verrà domani per dare un’occhiata alla centralina»
Ecco fatto. Ora me la stavo davvero facendo addosso.
«Terrò gli occhi aperti.» La mia voce suonò strana persino a me.
Quando mi ritrovai fuori dall’ufficio, quasi scoppiai a piangere. Non volevo trascorrere la notte là dentro, ma non potevo evitarlo perché avrei deluso il capo. E dopo tutto quello che aveva fatto per me non potevo permettermelo.
Uscii in giardino per fumare una sigaretta e una strana idea mi balenò nella mente. La guardai intensamente, desiderando di fumarla, di sentirla fra le mie labbra e aspirare il suo aroma fino a sentirlo dentro i polmoni. Lo desiderai così intensamente che mi sembrò quasi di sentire l’odore del fumo.
L’arrivo di Lucien mi interruppe, riportandomi alla realtà.
«Nina! Presto! Mary ha un attacco!»
Non ebbi il tempo di pensare. L’adrenalina mi invase e mi ritrovai al secondo piano senza nemmeno accorgermene.
Quando arrivammo, Mary era sdraiata sul pavimento, gli occhi rivoltati all’indietro e la bava che le sgorgava dagli angoli della bocca. Era un attacco epilettico, e una sola persona non può intervenire e salvare chi ne è colpito.
Mi inginocchiai accanto al corpo di Mary, scosso dalle convulsioni. La posizionai sul fianco destro, le spalancai la bocca e ci infilai dentro le dita, con la speranza di afferrarle la lingua prima che la ingoiasse. Ma non ci riuscii. «Mi serve un cucchiaio! Presto!»
Lucien scattò verso la cucina, e nel giro di qualche secondo tornò da me con ciò che gli avevo chiesto, mentre Susy, assistente come noi, teneva la testa di Mary schiacciata al suolo.
Infilai l’impugnatura del cucchiaio nella bocca di Mary e finalmente riuscii a fermare la lingua. La tenni schiacciata contro il palato mentre Lucien somministrava il Valium per via anale, la via più rapida perché il corpo lo assorba e ne tragga beneficio.
In breve tempo, il corpo di Mary smise di tremare. Si rilassò poco a poco, fino a tornare alla normalità. La sollevammo con delicatezza e la deponemmo sul letto della sua camera.
Erano servite tre persone per salvare la vita a Mary. Ma cosa sarebbe successo se Mary avesse avuto un altro attacco durante la notte, mentre io ero sola a vegliare su cinquanta persone? Non osavo neppure immaginarlo. Di certo sapevo soltanto che non avrei sopportato di assistere a una cosa del genere da sola, di notte, senza l’aiuto e il consiglio di almeno un altro collega. Tutti noi assistenti avevamo frequentato il corso di primo soccorso, ma in certi casi e difficile, quasi impossibile, riuscire a gestire certe situazioni senza l’aiuto di nessuno.
Mi rifugiai nello spogliatoio, desiderosa soltanto di una doccia bollente. Mi sfilai la divisa, indossai i miei jeans sbiaditi, la t-shirt e la felpa, e dopo aver messo le scarpe da ginnastica uscii verso il parcheggio per aspettare Lucien.
Ci stava mettendo un po’ più del solito ma non me ne preoccupai. Avevo proprio bisogno di starmene un po’ da sola.
Ripresi fra le dita la sigaretta che poco prima avevo desiderato fumare, e di nuovo provai il desiderio di vederla ardere tra le mie labbra.
Nel momento esatto in cui ci pensai, sentii l’odore della nicotina e del catrame durante la combustione. Percepii il filtro liscio accarezzarmi le labbra e il calore mi pervase.
Lo sentii nascere dalle profondità di me stessa, come il nocciolo di una centrale nucleare. Avvertii lo strisciare del calore dentro la cassa toracica, su per la gola, e infine espandersi verso la periferia del mio corpo. Il mio corpo stava bruciando dall’interno, e nella mia mente esplose il ricordo.
Vidi il suo volto dietro i miei occhi, e li sentii bruciare. Tutto bruciava dentro di me, al punto da farmi sentire le ustioni anche all’esterno del mio corpo. Mi guardai le mani e le braccia, convinta di vedere soltanto bolle e vesciche. Ma non c’era niente, a parte un leggero rossore che diventava man mano sempre più… forte.
Cercai di gridare per chiedere aiuto, anche se credevo che nessuno avrebbe potuto aiutarmi. Anzi, lo sapevo per certo. Soltanto io potevo fermare la combustione e ritornare in me stessa, almeno quel anto che bastava per non morire. Immaginai che le streghe si fossero sentite così, durante l’inquisizione, quando venivano arse vive sulle pire. Sentii odore di carne bruciata. Non mi piaque per niente.
In ginocchio, di fronte all’auto di Lucien, pregai con tutta me stessa. Sussurrai la mia preghiera con il cuore in fiamme, mentre lacrime di sangue mi rigavano il volto. Cercai di pensare a qualcosa di fresco e provai subito un po’ di sollievo. Pensai a quando a Sunfield aveva nevicato così tanto da coprire completamente la cassetta delle lettere. Pensai alla coca-cola ghiacciata che adoro sorseggiare quando fa troppo caldo. Pensai al Natale. E fu un grosso errore.
Pensare al Natale mi riportò a mia madre, alla mia famiglia, al dolore e all’abbandono. E il rancore non  mi avrebbe affatto aiutata in quel momento. Sarebbe soltanto servito a farmi esplodere sul serio, e forse a frantumarmi in milioni di scintille.
«Respira. Respira.» mi ripetei mille volte, come una cantilena sussurrata nell’orecchio di un bimbo per accompagnarlo al sonno.
Smisi di pensare a lei, a loro, innalzai una specie di barriera mentale che lichiudeva fuori da ogni mio pensiero, e ricominciai a sentire il sollievo. La brezza mattutina che soffia sulle onde dell’oceano, le goccie di rugiada sullo stelo di un fiore, un orso polare… Non so se fu il gelato al limone o il pinguino artico che immaginai, comunque ritrovai la calma e la percezione del mio corpo, riconoscendo ogni parte di me stessa e ricomponendomi pezzo per pezzo.
Inspirai ed espirai ripetutamente, contando sulla mia concentrazione per stabilizzare il battito cardiaco.
Mentre, barcollando, cercai di rimettermi in piedi, Lucien mi raggiunse nel parcheggio. Arrivò prima che potessi tergermi il sangue dal viso, e vidi l’orrore esplodere nei suoi occhi.



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