giovedì 16 dicembre 2010

The Deadly Blast





Capitolo terzo
«Nina.» mormorò con la voce spezzata.
Mi voltai per nascondermi dai suoi occhi sgranati che brillavano come due lapislazzuli. Non avevo mai visto due occhi più blu di quelli di Lucien. «Sto bene. Va tutto bene.» mentii.
Infatti, come potevo stare bene dopo quello che era appena successo? Non potevo, ma avevo bisogno di convincermi del contrario.
«Puoi accompagnarmi a casa?» gli domandai, mentre ancora cercavo di pulirmi il viso.
Mi girai e lo vidi annuire.
Salimmo sulla sua auto e restammo in silenzio. Io rimasi perfettamente immobile per tutto il tragitto, così da non attirare la sua attenzione e non costringerlo a guardarmi. Non volevo che mi guardasse, non volevo che leggesse sul mio viso quello che stavo provando in  quel momento, perché era troppo sconvolgente
anche per me.
Quando arrivammo nel giardino del palazzo in cui abitavo da qualche tempo,  spense il motore dell’auto e si lasciò andare contro il sedile, cercando di rilassare gli arti e la schiena. Socchiuse gli occhi, respirò profondamente, poi si voltò a guardarmi. Io mi voltai dall’altra parte. Non ero in grado di reggere il suo sguardo. Ripresi a piangere e quando sentii la prima lacrivìma scivolarmi sulla guancia, la raccolsi con un dito e la osservai. Era una lacrima di cristallo, del tutto normale, che in un certo senso bruciava più di quelle che avevo pianto nel parcheggio poco prima.
«Vuoi dirmi cos’è successo?»
Scossi la testa.
Mi seguì fino all’uscio di casa e mi osservò mentre con le mani tremanti, cercavo di infilare la chiave nella serratura. Quando il mazzo delle chiavi mi scivolò via dalle dita, entrambi ci inchinammo per raccogliere e ci scontrammo, sbattendo la fronte l’uno contro l’altra. Riuscii a sorridere, ma l’espressione di Lucien rimase seria e vacua.
Prese le chiavi per primo e fece scattare la serratura. La porta si aprì.
«Grazie.» sussurrai.
Era evidente che ero scossa, lo vedevo dalla mia immagine riflessa nei due lapislazzuli che aveva sl posto degli occhi. Dio! Brillavano di luce propria come due stelle.
«Lasciami entrare.» Perché la sua voce non tornava normale? Era inquietante non scorgere l’allegria nelle sue parole. Non ero abituata a tanta serietà da parte sua.
«Lucien io…»
«Per favore.»
Lo guardai per un attimo prima di annuire. Poi, la porta si chiuse alle nostre spalle.
Lucien mi precedette nel breve corridoio che portava al salotto del mio appartamento e si accomodò sul divano. I gomiti appoggiati alle ginocchia e la testa tra le mani dimostravano che era sconvolto. Io lo avevo sconvolto. E non aveva visto praticamente niente.
Prese un respiro e poi sollevò il viso per poter guardare il mio, che nel frattempo mi ero seduta su una sedia accanto al tavolo. Soltanto la televisione ci separava. Fu un bene, per me, che in quel momento non desideravo altro che nascondermi.
«Faccio il caffè.» annunciai, torcendomi le dita e dirigendomi verso la cucina che si trova a sinistra del salotto. Mi appoggiai al lavello per sostenermi. Era difficile reggermi in piedi, ed ero certa che di lì a poco sarei crollata sul pavimento. Lucien mi aveva seguita senza che me ne accorgessi, e mi osservava, le braccia incrociate sul petto, con la schiena poggiata allo stipite della porta.
Rimase in silenzio, come se aspettasse che fossi io a parlare. Lo feci.
«Forse dovrei fare una visita oculistica.» Cazzo! Non ero proprio capace di inventare delle scuse, non con due occhi così seri a scrutarmi come se volessero entrarmi dentro.
Inarcò un sopracciglio. Ovviamente non credeva minimamente alla mezza frottola che stavo cercando di raccontargli. «Puoi smettere di fare l’idiota e dirmi cos’è successo realmente?»
«Non mi va di parlarne.»
«Invece devi farlo, perché ti ho appena vista mentre piangevi lacrime di sangue e, cazzo! Non è affatto normale!»
Avrei voluto rispondere qualcosa tipo «E lo dici a me?», ma mi trattenni e mi voltai di nuovo per nascondergli il viso.
Allora mi si avvicinò al punto che potevo sentire il suo respiro sul collo. Mi mise le mani sulle spalle e cercò di farmi voltare, in modo da potermi guardare dritto negli occhi, ma io mi opposi, almeno fino a che potei farlo. Lucien era più alto di me almeno quindici centimetri, aveva spalle larghe e muscolose, e bicipiti in grado di far arrossire mister muscolo. Per cui non fu affatto difficile per lui costringermi a fare ciò che voleva. In verità, non mi opposi così tanto.
«Nina, io sono tuo amico. Puoi raccontarmi tutto e lo sai. Sai bene di poterti fidare di me, giusto?» mi chiese in tono leggermente più dolce di quello che aveva usato fino a poco prima.
Annuii di nuovo.
«Allora ti prego, se non vuoi che diventi totalmente pazzo, dimmi che diavolo ti è successo nel parcheggio.»
Senza che me ne accorgessi, cominciai a singhiozzare come una bambina. Mi aggrappai alla sua giacca di pelle e lasciai che mi cullasse come una poppante. Mi strinse forte al suo petto, così forte che sembrava volermi assorbire. E io rimasi aggrappata a lui, disperata e sconvolta. Era da tempo che non ricevevo un abbraccio, e in quel preciso istante ne avevo uno stramaledetto bisogno.
Quando mi fui calmata e recuperai un po’ della mia dignità, mi accompagnò sul divano tenendomi per mano, e si sedette accanto a me, continuando a stringermi al petto.
Dopo qualche respiro strozzato, mi scostai da lui. Un istante, e mi ritrovai in piedi a passeggiare avanti e indietro come una schizofrenica.
«Quello che sto per dirti non ha niente a che vedere con la normalità.» cominciai, cercando di trovare le parole giuste per spiegargli ciò che nemmeno io capivo perfettamente.
«Ti ascolto»
Lo guardai. Avevo tutta la sua attenzione.
«Quando ero bambina, passavo molto tempo a casa di mio nonno Charles. Una mattina di dicembre, gli domandai di portare me e mia sorella Cicely a giocare sulla neve. Lui, però, non si sentiva bene, e rifiutò di accompagnarci. Quando gli chiedemmo di darci il permesso di uscire da sole, lui ce lo negò.» Tornai in cucina e presi due grossi bicchieri d’acqua. Ne avevo davvero bisogno. La sorseggiai con calma, prima di sedermi di nuovo accanto a lui e ricominciare a parlare. «Per Cicely non era un problema rimanere rinchiusa in casa a giocare con le sue stupide bambole, ma per me sì. Io volevo uscire, volevo giocare all’aria aperta. Ho sempre adorato la neve, e qui a Sunfield capita così di rado di vederla, che non avevo alcuna intenzione di perdermela. Non l’avrei persa per nessuna ragione al mondo.»
«Ma questo cosa c’entra con ciò che ti è successo prima?» chiese confuso.
«Quella fu la prima volta in cui accadde.»
«Accadde… cosa?» insistette. Era ovvio che volesse capire, ma io dovevo spiegargli per bene tutto, se volevo evitare che saltasse a conclusioni affrettate.
«Quando cercai di uscire di nascosto, mi accorsi che tutte le porte erano chiuse, così come le finestre. Non potevo uscire, e io volevo giocare con la neve. Ero così… arrabbiata con lui. Ero convinta che mi volesse bene, ed era davvero così, ma in quel momento il suo rifiuto mi spinse a pensare che non mi amasse davvero, perché mi impediva di fare ciò che volevo proprio come i miei genitori.» Una lacrima sfuggì al mio controllo. La spazzai via con un dito. «La rabbia crebbe a tal punto dentro di me che ne rimasi quasi accecata. Sentii un calore sconosciuto pervadermi dal centro del mio corpo, lo sentii espandersi e avvampare, come se un falò fosse stato acceso dentro il mio stomaco. Il calore si diffuse velocemente, raggiunse mani e piedi, e infine il viso. Gli occhi cominciarono a bruciarmi ed era davvero come se stessi su un rogo. Cominciai a piangere sangue, come mi è successo oggi, ma non mi importava. L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era la mia rabbia, e il dolore fisico che ne derivava.»
«Perché ho l’impressione che il peggio stia per arrivare?»
«Perché sei sveglio.» replicai, e per un breve istante sorrisi senza allegria. «Desiderai che il nonno provasse il dolore che stavo provando io, lo desiderai fortemente, con tutta me stessa. Pregai Dio che gli facesse sentire le fiamme come le sentivo io. Quando il calore raggiunse il culmine, il fumo invase tutta la stanza.» Piegai le ginocchia e me le strinsi al petto, ciondolando avanti e indietro come un automa.
Lucien guardò di fronte a se e il suo sguardo divenne vacuo per qualche istante. Poi si voltò di nuovo a guardarmi. «Mi stai dicendo che hai dato… Dio! È un’assurdità!»
Allora fu lui ad alzarsi e a cominciare a percorrere il perimetro del salotto nervosamente.
«Volevi sapere la verità. La verità è che sono pirocinetica e che, a quanto pare, non sono così brava a controllarlo.»
«Nina è… è totalmente assurdo, te ne rendi conto?»
Ecco. Sapevo che avrebbe reagito così, che mi avrebbe guardata come se fossi improvvisamente impazzita. Sapevo che sarebbe successo, perché anch’io avrei reagito così se qualcuno mi avesse raccontato ciò che io avevo appena raccontato a lui. Forse sarei scappata urlando!
Questo era, comunque, il motivo fondamentale per cui non ne avevo mai fatto parola con nessuno.
«Lo so che è assurdo, ma so anche che è vero.» affermai.
Aspettai che tornasse a sedersi accanto a me. Se non lo avesse fatto, mi sarei convinta che fosse terrorizzato da me, e forse un po’ lo era. Ma la parte di lui che mi voleva bene, che mi considerava la sua migliore amica, per fortuna prevalse su quella terrorizzata. Mi sedette accanto e mi abbracciò così forte da mozzarmi il respiro. Forse non si rendeva conto di essere enorme e enormemente forte!
«Così mi soffochi!» biascicai.
«Scusa. Scusa. Dio, come ti senti adesso?»
«Da schifo. Ho davvero bisogno di una doccia. E il solo pensiero di dover affrontare il turno di notte mi angoscia.»
«Vengo con te!» affermò balzando in piedi quando mi alzai  per raggiungere il bagno.
«Non credo proprio.»
«Non nella doccia, sciocca! Ti farò compagnia durante il turno di notte.»
«Lo faresti? Lo faresti sul serio?»
«Per un’amica questo e altro.» affermò con la mano destra sul cuore.
«Dio! Ma dov’eri quando avevo sette anni?»
Rise. «Stavo sollevando le prime gonne, ovviamente!»
A volte dimenticavo che Lucien aveva ventinove anni, ovvero sette più di me. Il suo aspetto era talmente giovanile e attraente da farlo sembrare un ragazzino. Attraente? Non era la prima volta, durante quella giornata, che pensavo a lui come un uomo attraente. Non era affatto salutare.
Lo accompagnai alla porta, e quando fu sul pianerottolo mi disse che sarebbe passato a prendermi alle nove e mezzo di quella sera. Il turno cominciava alle dieci, ma tra cambiarsi, bere il caffè e fumare una sigaretta prima di cominciare, una mezz’ora ci voleva proprio. Però non ero sicura di voler fumare, quella sera. Forse era il caso che smettessi.




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