sabato 18 dicembre 2010

The Deadly Blast





Capitolo quarto
Di giorno la struttura era un luogo accogliente. La luce filtrava dalle grandi vetrate su ambo i lati e riusciva ad oltrepassare le tende, che non erano troppo spesse. Con tutta quella luce si potevano vedere i granelli di polvere che danzavano nell’aria.
Ma di notte appariva completamente diverso. I corridoi erano lunghe gallerie tetre e le porte delle camere, tutte semichiuse, parevano un invito silenzioso a fuggire. Se non avessi saputo che al loro interno riposavano i nostri vecchini, sarei fuggita urlando.
Ero così felice che Lucien si fosse offerto di farmi compagnia che non potevo trattenermi dal sorridere, di quando in quando, nonostante la giornata dura.
Mentre facevamo il primo giro di veglia, Lucien mi parve troppo silenzioso. «Tutto bene?» domandai in un sussurro. Annuì.

«A cosa pensi?» insistetti.
«Com’è possibile che… voglio dire, come fai?»
«Sinceramente non ne ho idea. So soltanto che fino a questo pomeriggio ero in grado di controllarlo alla perfezione.»
«Che significa?»
Era normale che fosse curioso di sapere come funzionava tutta la faccenda, ma non ero in grado di spiegarlo, perché nemmeno i più grandi scienziati hanno una risposta.
«Significa che durante gli anni che ho vissuto nell’istituto mi è stato insegnato a tenerlo a bada. So soltanto che sono le emozioni forti a scatenarlo, come la rabbia, il rancore, lo stress. E a quanto pare anche le situazioni un po’ movimentate come l’attacco di Mary bastano a scatenarlo.» Scossi la testa, come a voler cancellare il ricordo di quel pomeriggio.
Continuammo a camminare in silenzio, l’uno accanto all’altra. Tutto intorno a noi era silenzioso, al punto che potevo distinguere il respiro di ogni persona all’interno di quelle camere. Avrei giurato di aver sentito anche il battito cardiaco accelerato di qualcuno, ma forse era soltanto il mio, che mi rimbombava nelle orecchie come un martello pneumatico.
Non so ancora con esattezza cosa fu a mettermi in allarme, comunque mi si drizzarono i peli sulle braccia.
«Cos’è stato?» sussurrai con la voce spezzata dalla paura.
Lucien si guardò intorno. «Cosa?»
«Sento che… c’è qualcuno.»
«C’è più di qualcuno in questa struttura, Nina, non farti prendere dal panico da ogni respiro.»
«Non è un respiro, Lucien. Mi sento osservata.»
Mi scrutò in viso per qualche istante prima di allontanarsi da me, il che mi terrorizzò parecchio. «Dove stai andando?» quasi gridai quella domanda.
Non rispose. Si limitò a farmi cenno di seguirlo con una mano. Non mi feci pregare.
Scandagliammo ogni centimetro della struttura. Sbirciammo all’interno di ogni camera, nella cucina, e perfino nei bagni a ogni piano. Quando fu il momento di uscire in giardino, però, mi bloccai.
Una sorta di calore tenue mi attanagliò lo stomaco, facendo sì che si contorcesse. La paura è di per sé un’emozione forte, ma non immaginavo che anch’essa sarebbe bastata a scatenarlo. Feci dei lunghi respiri che mi riempirono i polmoni, ma si sa, l’aria alimenta il fuoco, per cui smisi di respirare. Di certo non avrei potuto restare in apnea a lungo, però sentivo che era la cosa migliore da fare in quel momento.
Decisi di seguire Lucien all’esterno, tantomeno per aiutarlo in caso di necessità. Il modo in cui intendevo aiutarlo, però, fece crescere il calore facendo sì che raggiungesse il petto e la gola. Non era un buon segno. Sentivo le mani intorpidite, forse per il calore, o forse soltanto per la paura- cosa che speravo vivamente.
Lucien cercò di prendermi per mano, ma io lo scacciai con decisione. Il contatto fisico non è mai l’ideale in quei momenti.
Mentre ci apprestavamo a tornare all’interno della struttura, sentii un rumore alle nostre spalle. Quando mi voltai, vidi soltanto il vuoto e, in un certo senso, mi tranquillizzai.
Tornammo dentro, agitati e spaventati. Io, almeno, lo ero. Lucien pareva più tranquillo, ma anche i suoi occhi erano parecchio dilatati, pronti a scovare le ombre nell’oscurità.
Quando mi posò una mano sulla spalla, accadde ciò che più temevo.
Dovette scostarsi così rapidamente da me che andò a sbattere contro la parete alle sue spalle.
Io sentii soltanto una piccola scossa elettrica, ma lui si bruciò tre dita e parte del palmo della mano destra.
«Cazzo!» imprecò.
«Mi dispiace Lucien. Non  era intenzionale.»
«Vuoi dire che puoi anche decidere quando e come metterlo in moto?» domandò sgranando gli occhi.
«Sì, ma non l’ho mai fatto. A parte… bé, in teoria neppure quando è morto il nonno. L’energia era già nata dentro di me, e chiedeva soltanto di uscire. Quindi non so se posso realmente innescarlo a piacimento, ma di certo posso sfruttarlo quando è… innescato.» spiegai, stringendomi nelle spalle.
Senza indugiare oltre, corse in infermeria per medicarsi la mano. Le dita stavano peggio del palmo. Erano ricoperte di piccole piaghe bollose, mentre il palmo presentava soltanto un leggero rossore. Medicò e bendò le tre dita, una per una, lasciando invece libero il palmo.
Passò qualche ora e cominciai a sentirmi stanca. Le palpebre erano pesanti e trovavo difficile restare sveglia. Non solo era il secondo turno di una sola giornata, mal’energia che aavevo speso era parecchia, e il mio corpo ne stava risentendo.
Lucien riuscì a convincermi a sdraiarmi per un po’, anche se non trovavo giusto che dovesse vegliare al posto mio. E poi, se mi fossi addormentata, lui avrebbe continuato la veglia lasciandomi sola e indifesa. Ma non potei resistere e, posata la testa sul bracciolo del divano, mi abbandonai al sonno.
Spesso mi capitava di avere degli incubi, forse a causa dell’accumulo di stress o di Dio solo sa cosa.  Ma quella notte era come se stessi vivendo un esperienza in un mondo parallelo. Non stavo dormendo, per quanto mi riguardava, ma ero sveglia e vigile in un altro mondo, uguale a quello vero, ma totalmente diverso. So bene che può sembrare un discorso assurdo, ma non è semplice spiegare ciò che non si comprende.
A ogni modo, mentre mi guardavo intorno nel mondo sconosciuto, scorsi una sagoma che tentava di nascondersi alla mia vista. Andai nella sua direzione, sperando di potergli chiedere come tornare a casa, ma quando mi ritrovai di fronte a lui, le parole mi morirono in gola.
Nonno Charles mi guardava dall’alto del suo metro e ottanta, i capelli bianchi erano più lunghi dell’ultima volta che lo avevo visto. Sembravano fili d’argento, illumidati dalla pallida luce della luna che filtrava dalla finestra. Aveva l’aria pacifica e beata, l’aria da nonno, come la chiamavo io. E sul suo volto scorsi qualcosa che mi diede la pace: il perdono. Nonno Charles mi aveva perdonato nonostante quello che gli era successo e nonostante io ne fossi la causa.
Ci osservammo a lungo, senza parlare, senza nemmeno respirare. Era strano quanto potessi resistere senza introdurre aria nei miei polmoni, non ricordavo nemmeno di aver ricominciato a farlo quando io e Lucien eravamo rientrati dal giardino.
La cosa davvero importante era che il nonno era lì, di fronte a me, e che avevo la possibilità di scusarmi per ciò che gli avevo fatto. Ma quando tentai di aprir bocca, mi ammonì con lo sguardo. Mi intimò di restare in silenzio posandomi un dito sulle labbra. Obbedii.
«Non è tua la colpa di ciò che è successo.»
La sua voce mi spezzò il cuore. Era da così tanto tempo che desideravo di sentirla, che quando accadde non riuscii a trattenere le lacrime. Cercai di avvicinarmi a lui, volevo abbracciarlo, stringerlo, sentire il suo profumo e farmi coccolare come quando ero bambina ed ero arrabbiata con i miei genitori, ma lui arretrò di qualche passo, impedendomi di toccarlo.
«Accadrà ancora.» annunciò.
«Cosa?»
«Accadrà ancora, se non farai in modo di impedirlo.» Dopo aver pronunciato la sua profezia, la sua figura si dissolse come nebbia, e io mi risvegliai in un bagno di sudore.
Mi ritrovai seduta sul divano, con le ginocchia strette al petto. Ero sconvolta, affascinata e turbata da quella visione così nitida, quasi palpabile. Se avessi potuto toccare il nonno mi sarei convinta che fosse tutto reale.
Guardando l’orologio appeso alla parete mi accorsi di aver dormito per cinque ore. Ne mancava soltanto una alla fine del turno e io non vedevo l’ora di tornare a casa mia.
Cercai Lucien nei corridoi, nelle camere, e perfino nei bagni, ma non lo trovai. Allora presi a chiamarlo, cercando di non urlare per svegliare le persone che ancora riposavano, ma non ottenni alcuna risposta.
Mi affacciai alla finestra che dava sul giardino e finalmente lo vidi. Stava cercando di accendersi una sigaretta, ma il suo accendino non voleva saperne di collaborare.
Avrei potuto aprire la finestra o raggiungerlo e prestargli il mio, ma prima che potessi decidere se farlo o meno, protesi una mano nella sua direzione e mi concentrai. Convogliai il calore verso la periferia del mio corpo e puntai il dito verso la sigaretta come a prendere la mira. Socchiusi gli occhi e lasciai che l’energia si scatenasse. Librò nell’aria fino a Lucien, il cui viso si illuminò improvvisamente. La sigaretta era stata accesa da una fiammata improvvisa. Si voltò di scatto verso la finestra, come se avesse percepito la mia presenza, ma ebbi il tempo di nascondermi.
Non volevo che mi temesse, non volevo che pensasse a me come a un accendino gigante. Inoltre gli avevo detto di non essere più del tutto in grado di controllarmi e questo avrebbe potuto terrorizzarlo.
Per fortuna, quando mi raggiunse, non disse niente riguardo l’accaduto e io mi tranquillizzai.
Ma quando salimmo in auto capii che non se l’era bevuta.
«Sai, prima avevo una dannata voglia di fumare una sigaretta ma quel maledetto accendino non voleva saperne.»
Abbassai lo sguardo, e probabilmente arrossii. «Avresti potuto chiedermi il mio.»
«Non è servito, perché una cazzo di fiamma si è accesa davanti alla mia faccia.»
Non era arrabbiato, però era un po’ seccato. Non aveva torto, anzi, se fossi stata al suo posto lo avrei insultato.
«Scusa.» fu l’unica cosa che mi venne in mente.
«Dobbiamo fare qualcosa, Nina. Dobbiamo scoprire come fermare tutto questo prima che qualcuno si faccia male.»
Quelle sue parole bastarono a farmi mettere sulla difensiva. «Non farò del male a nessuno.»
«Non volontariamente, certo, ma se qualcuno ti facesse incazzare e tu non riuscissi a controllarti?»
Non risposi, così si sentì in diritto di insistere. «Allora?»
«Allora cosa?» sbottai.
«Allora cosa credi che accadrebbe? Cosa credi che succederebbe se tu, un giorno, non riuscissi a controllare la rabbia, o la paura, o qualsiasi altro cazzo di sentimento e facessi del male a qualcuno?»
«Non succederà.»
«Come puoi essere così cieca? Come puoi credere che vada tutto bene? Noi ci prendiamo cura di persone, Nina. Sono persone indifese e tu ci vivi in mezzo ogni fottuto giorno.» Prese un respiro e poi continuò. «E se succedesse qualcosa a te? Se queste… fiamme, un giorno, decidessero di uscire all’esterno del tuo corpo e ti bruciassero viva?»
«Sarebbe la giusta punizione.»
«Cazzate. Non fare la melodrammatica con me, Nina. Non funziona affatto.»
«Che cosa vuoi da me, Lucien?»
Fermò la macchina in mezzo al nulla, scese e sbatté lo sportello con tanta forza da farmi credere che non si sarebbe aperto mai più.
Lo seguii.
«Che cosa vuoi da me?» ripetei. Cominciavo a innervosirmi anche se sapevo che era controproducente. Non volevo rischiare di andare a fuoco un’altra volta, tantomeno di mandare a fuoco lui. Ma la rabbia cominciava a pervadere il mio corpo e, lentamente, diventava sempre pi difficile tenerla a freno.
«Voglio che tu ti curi di te stessa. Voglio che tu scopra come fare a fermare questa tua… capacità, o comunque tu voglia chiamarla. Voglio essere sicuro che tu sopravviva a tutto questo e che tu riesca a evitare di fare del male a qualcuno. Ti sembra tanto assurdo?»
Scossi la testa. No, non mi sembrava affatto assurdo. Sapevo che Lucien aveva ragione, ma non sapevo come fare per riuscire in ciò che mi stava chiedendo.
Da quandop avevo abbandonato l’istituto era stato sempre pi difficile controllare la pirocinesi.
Esistevano altre persone come me, bambini all’epoca in cui lo ero anch’io, che vennero rinchiusi nell’istituto per imparare a non nuocere a se stessi e agli altri. Molte volte i metodi di insegnamento erano alquanto antiquati e talvolta sgradevoli. Quand’ero bambina li chiamavo “torture”, perché ritrovarsi in una stanza buia, con un cane feroce pronto a sbranarci se non avessimo imparato a difenderci, per me era una vera e propria tortura.
E il non riuscire a controllarmi quando lo stimolo era positivo, come ad esempio un gattino indifeso, e mandare a fuoco la vittima senza realmente volerlo… Bé, anche quella era una tortura per me.
Però col tempo e con la pazienza ero riuscita ad assimilare il controllo e a gestire questa mia capacità senza più correre rischi. Certo, spesso mi capitava di accendere accidentalmente dei piccoli fuochi, che però con la concentrazione si riducevano a piccole traballanti fiammelle destinate a spegnersi con un soffio.
Ora, però, stava succedendo qualcosa di strano.
Era come se non solo non riuscissi a controllare il fuoco, ma sentivo il desiderio ardente di utilizzarlo. Non mi era mai capitato di provare divertimento e gioia nell’utilizzare il mio fuoco per fare qualcosa. Ma anche il semplice accendere la sigaretta di Lucien a distanza mi aveva riempita di una tale gioia e di una tale sete di potere da farmi provare la smania di farlo ancora, e ancora. All’infinito.
Temevo che di lì a poco mi sarei ritrovata ad appiccare incendi a destra e a manca. Probabilmente, a breve, sarei stata arrestata per piromania. Quel pensiero nient’affatto divertente, mi fece ridere amaramente.
«Forse dovrei… forse dovrei tornare all’istituto e chiedere aiuto.» conclusi, anche se quell’idea non mi piaceva per niente.
«Posso accompagnarti, se vuoi.»
Scossi la testa così violentemente da beccarmi la lingua tra i denti. «Non se ne parla.»
«Perché no?»
«Perché io sono in qualche modo schermata dalle fiamme altrui, tu no.»
«E questo che significa?» Domanda stupida, ma decisi di rispondere.  Forse almeno così sarei riuscita a spaventarlo abbastanza da convincerlo a rinunciare.
«Se qualche novellino decidesse di appiccare un incendio – e bada bene, nell’istituto non ci sono soltanto pirocinetici – tu finiresti carbonizzato in pochi secondi. Io no. Ergo…» Lasciai a lui la conclusione.
«Io vengo con te.»
Come si può essere tanto stupidi?
«Non ti faranno entrare.»
«Bé, troverò il modo di entrare lo stesso.»
«E come farai?» gli chiesi, scettica.
«Mi inventerò qualcosa. Andiamo?»
Senza aspettare che rispondessi, tornò sull’auto e avviò il motore. Imprecando tra me e me feci lo stesso. Lo guardai per un istante pregando silenziosamente che cambiasse idea, ma Lucien non sembrava intenzionato a farlo.
E così ci ritrovammo in viaggio verso il luogo da cui ero finalmente riuscita a scappare.
Senza saperlo, Lucien mi stava riconducendo verso la mia prigione, rischiando che questa volta mi rinchiudessero sul serio. Per sempre.



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