giovedì 16 dicembre 2010

The Deadly Blast


Capitolo primo
Non sono mai stata il tipo di ragazza che porta rancore.
Ho sempre perdonato ogni male ricevuto, anche se talvolta è stato difficile riuscirci. Mi ci è sempre voluta tanta convinzione e buona volontà, ma ho sempre superato il dolore e l’indifferenza degli altri nei confronti dei miei sentimenti. Fin da bambina sono riuscita a non considerare come offese le prese in giro dei compagni, a vedere il buono anche in chi di buono non aveva nulla. Il perdono è uno dei miei maggiori pregi, insomma.
C’è soltanto una cosa che ancora mi brucia l’anima al punto di mandarmi quasi letteralmente a fuoco. Una cosa che non posso perdonare, né dimenticare. In effetti
, in questo caso il rancore è d’obbligo.
Mi cacciarono di casa quando avevo soltanto sette anni.
Dovetti abbandonare la mia casa, i miei genitori e la mia unica sorella. O forse sarebbe meglio dire che sono furono questi ultimi, ad abbandonare me.
Mi rinchiusero in una comunità per bambini speciali, raccontandomi frottole sul motivo per cui non potevo vivere con loro. Mi hanno mentito, sempre e comunque.
Quando finalmente compii ventuno anni, fui libera di andarmene, di tornare al mondo, in mezzo agli esseri umani normali.
Vivevo da sola in un appartamento di ottanta metri quadrati, arredato in stile rustico, proprio come piace a me. Pagavo l’affitto facendo l’assistente in una casa di riposo per anziani.
Già, chi l’avrebbe mai detto che sarei finita in un posto del genere?
Non mi sono mai piaciuti gli anziani, tranne mio nonno. Ma nonno Charles non c’è più, e io ho sentito il bisogno di colmare il vuoto che lui ha lasciato.
Così è iniziata la mia nuova vita.
I turni di lavoro erano abbastanza stancanti, ma non me ne lamentavo. Dopotutto, non avrei saputo come passare il tempo se non avessi trovato un lavoro. All’inizio fu molto difficile ambientarmi. Non sopporto il contatto fisico, mentre gli anziani sembrano non poterne fare a meno.
È stato difficile spiegare alla signora Mary che non era necessario baciarmi la fronte ogni cinque minuti, ed è stato altrettando complicato far capire al signor Felix che non potevo passare tutte le otto ore del mio turno mano nella mano con lui.
Però, dopotutto, non era poi così male.
A volte capitavano cose terribili, come la morte di uno di loro. È sempre difficile veder morire qualcuno, anche se non si è legati in termine di parentela. Si creano dei legami, dei rapporti stretti, anche se non si condivide il sangue. Talvolta capitava di non vederli proprio mentre tirano l’ultima boccata d’aria dentro i loro polmoni. Ma quando succedeva, il cuore rischiava di esplodermi nel petto.
Era come rivivere quel momento all’infinito.
Era sempre lui, il nonno, ma con cento volti diversi.
Tutto sommato succedevano anche cose estremamente divertenti, come quando la signora Gwendaline rubò i pantaloni dallo stipetto del mio collega Lucien.
Lucien era davvero un tipo divertente.
Riusciva a rendere allegra anche la situazione più tragica. Purtroppo non sempre i nostri turni coincidevano, ma quando succedeva era sempre uno spasso.
Spesso ci vedevamo anche fuori dal lavoro, e capita ancora adesso, qualche volta.
Lucien mi piaque subito, ma non nel senso in cui un uomo piace a una donna. No, tutt’altro. Diventammo ottimi amici, e credo che lo saremo per sempre.
Fino all’anno scorso aveva una ragazza. Si chiama Judith. Non era per niente gelosa del nostro rapporto, e questo mi tranquillizzava. Però non voleva mai uscire con noi, e anche se diceva di trovarmi simpatica, questo suo rifiuto di unirsi alle nostre uscite mi lasciava un po’ perplessa. Non sono ancora riuscita ad inquadrare bene la sua persona, a volte pensavo che nascondesse qualcosa, ma non ne ho mai parlato con Lucien, perchè avevo paura che si incazzasse con me, ma alla luce dei fatti me ne pento.
Il giorno del loro primo anniversario, Lucien rincasò prima del solito. Voleva fare una sorpresa a Judith e addobbare il loro piccolo nido d’amore per l’occasione. Mi trascinò in cinque negozi diversi alla ricerca di quelle stupide candele profumate che si utilizzano per creare atmosfera. A Judith piacevano quelle alla cannella, difficilissime da reperire. Bé, Lucien per lei le avrebbe create con le sue mani, così passammo un’intera mattinata in giro per la città per trovare quelle maledette candele. Come ho già detto, rincasò prima del previsto. Judith credeva che lui avrebbe lavorato fino a tardi, mentre Lucien chiese un giorno di riposo per organizzare la serata.
Picchiò talmente forte il tizio che trovò nel loro letto con Judith che fu costretto a chiamargli pure un’ambulanza.
Lei lo aveva tradito, forse lo tradiva da sempre.
Chissà quante volte aveva passato il tempo con quell’altro nel letto in cui poi dormiva con Lucien.
Fatto sta che il mio amico si beccò una denuncia per percosse, e fu proprio quella stronza della sua ragazza a denunciarlo! Assurdo. Visto come sono andate le cose, io avrei picchiato anche lei.
Comuque non fu arrestato, per fortuna, e tornò alla sua vita così velocemente da rendermi ansiosa. Temevo che stesse soltanto fingendo di stare bene, ma non sapevo come aiutarlo.
Una mattina di fine novembre, mentre ci dirigevamo insieme a lavoro, presi coraggio e gli domandai come si sentisse davvero.
«Sto bene. Non devi preoccuparti per me.», disse, con una voce che tradiva un dolore profondo.
«Lo sai che con me non sei costretto a fingere, vero?»
«Nina, sto bene. Non m’importa più niente di lei né di quello che mi ha fatto. È acqua passata, ormai.»
«Ma come fai?»
«A fare cosa?»
«A non essere incazzato con lei per quello che ti ha fatto, a odiarla come merita, a desiderare di prenderla a sberle.»
«Non si picchiano le donne.», disse in modo così serio che mi fece accapponare la pelle. Il suo sguardo era perso nell’orizzonte, vedeva qualcosa che io non riuscivo a cogliere. Qualcosa che, forse, io non conoscevo. O che forse non riuscivo a riconoscere.
Era lo sguardo di chi ha perdonato, di chi se n’è fatto una ragione ed è andato avanti senza alcun ripensamento. Io non riesco più a perdonare niente con la semplicità con cui lo facevo quand ero bambina.
Forse è proprio vero che il tempo cambia le persone in modo definitivo.
Comunque, non seppi cosa rispondere. Sapevo che aveva ragione, perciò era inutile aggiungere altro. Mentre la sua auto imboccava il vialetto della struttura presso la quale entrambi lavoravamo, il mio cellulare squillò.
Lo cercai nella borsa e, quando lo trovai, sentii il desiderio di lanciarlo fuori dal finestrino.
Lucien notò la mia espressione scocciata e il mio cambio d’umore improvviso. «Scommetto di sapere chi è.»
«Ciao mamma.»
Proprio quello che ci voleva. Se il buon giorno si vede dal mattino...
«Ciao Nina. Ti chiamo per sapere se hai già preso qualche impegno per la vigilia di Natale», disse, la voce sporca d’ansia.
«Manca ancora parecchio», replicai, sforzandomi di mantenere la calma.
«Lo so bene. Ma ho bisogno di sapere con largo anticipo il numero esatto dei miei ospiti. Queste cene vanno organizzate, Nina, e sai bene che non amo aspettare all’ultimo momento per…»
«Ci sarò», la interruppi, prima che cominciasse con i suoi soliti interminabili monologhi. Non mi telefonava spesso, ma quelle rare volte in cui decideva di farlo, ci dava dentro e mi tormentava con mille domande e mille cazzate di cui a me non importava niente.
«Verrai… da sola?»
Ci pensai per un secondo. «No.» risposi infine. «Porterò con me un amico».
Quando sentì quelle parole, Lucien si voltò a guardarmi con gli occhi pieni di ciò che si trova in quelli di un serial killer nel momento in cui sta per aggredire la sua vittima.
«Posso sapere di chi si tratta?» domandò mia madre dall’altro capo del telefono.
«Ci vediamo mamma» replicai prima di riagganciare.
Lucien continuava a guardarmi in cagnesco, e ciò mi fece ridere.
«Non c’è nulla di divertente in tutto questo.» affermò serio.
«Ricordi quando mi hai chiesto di accompragnarti al funerale dello zio di tuo padre, e mi hai presentata a tutti come la tua fidanzata solo perché tua madre non faceva altro che assillarti perché eri ancora single?»
«Questo non ha importanza.»
«Oh, io credo di sì, invece, dato che quel giorno mi promettesti di ricambiare il favore. Quindi, alla vigilia di Natale, tu cenerai seduto al mio fianco e fingerai di essere il mio perfetto fidanzato, cosicchè nessuno possa rompermi i coglioni».
«Sei sempre così raffinata», mi apostrofò.
«E tu sei sempre così idiota» replicai. «Forza, cominciamo il turno».
Sapevo che in quel momento il mio amico mi odiava di un odio genuino.
L’odio che provavo io, invece, era autentico.

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